risarcimento del danno da perdita della retribuzione per licenziamento illegittimo

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marco panaro
00domenica 4 aprile 2004 15:01
Cassazione Sezione Lavoro n. 5655 del 20 marzo 2004, Pres. Prestipino, Rel. Mariorano

Catherine S. dipendente dell’Istituto Casa Privata Calvary Hospital è stata licenziata nel settembre 1994 in quanto l’azienda ha fatto valere il patto di prova incluso nella lettera di assunzione emessa due mesi prima. Ella ha chiesto al Pretore di Roma di dichiarare la nullità del patto di prova, di annullare il licenziamento, di ordinare la sua reintegrazione nel posto di lavoro e di condannare l’azienda al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione relativa al periodo tra il licenziamento e la reintegrazione. La lavoratrice ha sostenuto che, prima della formale assunzione, era stata impiegata dall’azienda in condizioni di subordinazione senza essere regolarmente inquadrata. Il Pretore ha rigettato la domanda. Questa decisione è stata integralmente riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Roma che, con sentenza pronunciata nel febbraio del 2001 ha annullato il licenziamento, ha ordinato la reintegrazione di Catherine S. nel posto di lavoro ed ha condannato l’azienda al risarcimento del danno. L’importo del risarcimento è stato però determinato dal Tribunale in 36 mensilità di retribuzione, pur essendo decorsi, al momento della sua pronuncia, circa sei anni e mezzo dal licenziamento. La determinazione riduttiva è stata giustificata dal Tribunale con il rilievo che date le condizioni del mercato del lavoro e la professionalità della lavoratrice si poteva ritenere che dopo tre anni di disoccupazione ella, con l’uso della ordinaria diligenza, avrebbe trovato una nuova occupazione. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza del Tribunale di Roma per disapplicazione dell’art. 18 St. Lav. nella determinazione del risarcimento del danno e per difetto di motivazione.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 5655 del 20 marzo 2004, Pres. Prestipino, Rel. Maiorano) ha accolto il ricorso. Essa ha richiamato la sua giurisprudenza secondo cui nella determinazione del risarcimento del danno da perdita della retribuzione per licenziamento illegittimo si deve tener conto dei guadagni eventualmente realizzati dal lavoratore lavorando per altri (aliunde perceptum) ovvero di quelli che egli avrebbe potuto ottenere usando la normale diligenza (aliunde percipiendum). La decisione in proposito – ha rilevato la Corte – deve essere però adeguatamente motivata in base alle risultanze probatorie. Nel caso di specie – ha affermato la Corte – il giudice di appello è incorso in difetto di motivazione, ritenendo provato l’aliunde percipiendum sulla base dell’unico fatto accertato, costituito dalla qualificazione professionale della lavoratrice, nonché sulla base di presunzioni semplici costituite dal tempo trascorso e dalla situazione del mercato del lavoro, ma non ha adeguatamente motivato sulla quantificazione del danno e sulle somme che la lavoratrice avrebbe potuto guadagnare usando l’ordinaria diligenza a norma dell’art. 1227 cod. civ.
marco panaro
00mercoledì 25 aprile 2007 14:28
Cassazione Sezione Lavoro n. 9072 del 16 aprile 2007, Pres. Mattone, Rel. Maiorano
Qualora sia accertata l’illegittimità del licenziamento, la quantificazione del danno subito dal lavoratore deve essere effettuata tenendo conto, come normale parametro, della retribuzione che egli avrebbe percepito qualora non fosse stato licenziato e quindi di quella riferibile al periodo compreso fra la data del recesso e quella della reintegrazione, salvo che il datore di lavoro, sul quale grava il relativo onere probatorio, non eccepisca (e provi) la sussistenza di fatti o circostanze idonee a determinare una riduzione del presuntivo ammontare del danno (l’“aliunde perceptum” o comunque, la possibilità per il lavoratore di evitare il danno con l’ordinaria diligenza). In caso di accertata illegittimità del licenziamento, la quantificazione del danno subito dal lavoratore non può essere fatta forfetariamente, come nella specie, ma deve essere effettuata tenendo conto, come normale parametro, della retribuzione che egli avrebbe percepito qualora non fosse stato licenziato. Nella liquidazione del danno si deve però tenere presente che ove la rioccupazione del lavoratore illegittimamente licenziato costituisca allegazione in fatto ritualmente acquisita al processo, anche se per iniziativa del lavoratore e non del datore di lavoro, il giudice ne deve tener conto – anche d’ufficio – ai fini della quantificazione del danno provocato dal licenziamento illegittimo
marco panaro
00mercoledì 30 aprile 2008 12:13
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, SENTENZA N. 8800 DEL 4/4/2008

La L. n. 218 del 1952, art. 19, confermando l'art. 2115 c.c., impone la contribuzione previdenziale tanto al datore quanto al prestatore di lavoro, dichiara il primo responsabile del pagamento anche per la parte a carico del secondo ed autorizza la trattenuta di questa parte sulla retribuzione. A queste regole il successivo art. 23, pone un'eccezione per l'ipotesi in cui il datore non provveda al pagamento dei contributi "entro il termine stabilito": in tal caso egli è tenuto al pagamento "tanto per la quota a proprio carico quanto per quella a carico dei lavoratori".
Che poi la contribuzione sia dovuta per il periodo in cui il lavoratore non abbia potuto rendere le proprie prestazioni perché illegittimamente licenziate, è stabilito dalla L. n. 300 del 1990, art. 18, nel testo modificato dalla L. n. 108 del 1990, art. 1, quest'ultimo da applicare anche per il tempo anteriore alla sua entrata in vigore, secondo quanto deciso dalle Sezioni unite di questa Corte con sentenza 5 luglio 2007 n. 15143.
Ciò premesso, il quesito che la ricorrente sottopone a questa Corte è se l'art. 23 cit. debba applicarsi anche nel caso in cui il ritardo nel pagamento dei contributi sia dipeso da un licenziamento illegittimo, seguito da sentenza accertativa dell'illegittimità e ordinante la reintegrazione del lavoratore nel suo posto.
La sentenza impugnata ha dato esattamente risposta positiva al quesito, giacché, come questa Corte ha già affermate, l'art. 23, può non trovare applicazione solo quando il ritardo non sia imputabile al datore (Cass. 30 dicembre 1992 n. 13735 e 11 luglio 2000 n. 9198) e
nell'ipotesi qui in esame il datore di lavoro, attraverso il licenziamento illegittimo, è incorso in un illecito contrattuale, di cui deve sopportare le conseguenze sia sul piano risarcitorio ai sensi dell'art. 18 cit. sia sul piano punitivo ai sensi del ripetuto art. 23.
Nella previsione contenuta nel primo comma di questo articolo, che trasferisce l'obbligo di pagare una parte dei contributi da uno ad altro soggetto, dev'essere ravvisata una pena privata, giustificata dall'intento del legislatore di rafforzare il vincolo obbligatorio attraverso la comminatoria, per il caso di inadempimento, di un pagamento di importo superiore all'ammontare del mero risarcimenti del danno.
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